Per lasciare il segno
L’espressione impact investing comincia a circolare anche nel lessico di chi non è addetto ai lavori. La abbiamo incontrata anche in articoli precedenti. Il rischio, però, è che venga usata come sinonimo generico di “investimento buono” o “finanza che fa bene”. In realtà, l’impact investing è una cosa molto precisa: un approccio che unisce intenzionalità, misurabilità e rendimento.
È una frontiera avanzata della finanza sostenibile. Non si limita a evitare il danno (come fa l’esclusione dei settori controversi), né solo a premiare chi si comporta bene (come fanno gli approcci best-in-class). Va oltre: vuole generare attivamente un cambiamento positivo misurabile nella realtà.
Cosa ancora non funziona
Nonostante l’interesse crescente, l’impact investing resta oggi una nicchia. E i motivi non sono solo tecnici. C’è un problema di linguaggio, di accessibilità, di aspettative. Troppo spesso, chi si avvicina a questo mondo immagina un investimento “etico” che rende quanto uno speculativo e cambia il mondo senza rischi o attese. Ma l’impact investing richiede pazienza, selettività e un diverso rapporto con il tempo.
Ci sono poi ostacoli di struttura. Come la mancanza di strumenti finanziari pensati davvero per il risparmio privato. E le difficoltà di dialogo fra le imprese sociali e il mercato dei capitali. Anche la misurazione dell’impatto è ancora un terreno in evoluzione, in parte soggettivo, spesso frammentato.
In Italia, le cose si complicano ulteriormente per via della dimensione ridotta dei progetti, della scarsa cultura finanziaria diffusa, e della difficoltà a creare un ecosistema che metta davvero in rete investitori, imprenditori sociali, fondazioni e consulenti. Il potenziale c’è, ma la macchina è ancora in rodaggio.
Dove nasce, dove sta andando
Il termine è stato coniato nel 2007, ma l’idea ha radici più antiche. Da sempre esistono persone e realtà che hanno voluto far fruttare il proprio capitale in modo coerente con i propri valori. La novità dell’impact investing è che prova a rendere tutto questo sistematico, replicabile, scalabile.
Negli ultimi anni si è diffuso in modo particolare tra fondazioni, family office, investitori istituzionali e piattaforme specializzate. Crescono anche le iniziative dedicate a settori come l’inclusione sociale, l’educazione, l’accesso all’energia, l’agricoltura sostenibile, la salute nelle periferie del mondo.
E in Italia?
Anche nel nostro Paese si muovono passi interessanti. Alcune fondazioni bancarie hanno avviato progetti di investimento a impatto nelle comunità locali. Nascono strumenti dedicati al sostegno di imprese sociali e cooperative. Crescono i numeri delle piattaforme di finanza civica. Ma il mercato resta ancora piccolo, spesso poco conosciuto e frammentato.
C’è bisogno di più cultura finanziaria, più intermediazione qualificata, più prodotti accessibili al risparmio privato. Ma soprattutto c’è bisogno di una narrazione diversa: non buonismo, ma concretezza. Non utopia, ma pazienza.
Cosa puoi fare come investitore
L’impact investing non è per tutti. Richiede orizzonti di lungo periodo, tolleranza per una minore liquidabilità, fiducia nel valore dell’impatto oltre il semplice rendimento. Ma per chi ha queste caratteristiche — o vuole cominciare a esplorare — è fondamentale una guida preparata.
Che aiuti a distinguere tra marketing e contenuto, tra progetti misurabili e promesse generiche, tra strumenti coerenti e prodotti d’impatto solo nell’etichetta. E può accompagnare chi investe a trasformare il capitale in cambiamento, in modo consapevole, concreto e ragionato.
L’impact investing non è un’idea di moda.
È la dimostrazione che finanza e bene comune possono camminare insieme, se guidate da visione, metodo e responsabilità.