Bene comune: all’anima della finanza
Quando si parla di responsabilità sociale, sostenibilità ambientale, e più in generale di aspetti etici legati allo sviluppo economico, spesso a un certo punto si cita il concetto di “bene comune”, ragione suprema a cui dovrebbero ispirarsi le decisioni prese in questi ambiti. Ciascuno di noi ha più o meno in mente una definizione intuitiva di ciò che questa espressione racchiude, ma forse vale la pena di fare il punto su ciò che può significare davvero. Senza voler scomodare filosofi e pensatori – non è il mio mestiere – e senza la vana pretesa di essere esaustivi. Ma giusto per stimolare la riflessione e, perché no, il confronto (questo blog è apertissimo a idee, suggerimenti, commenti e critiche: approfittane).
Che cos’è il bene comune
Forse possiamo partire “per differenza”, dicendo cioè cosa non è (o non è solamente) il bene comune: non è solo qualcosa di materiale, un patrimonio diviso fra tutti gli appartenenti a una comunità, come un terreno, un edificio o un servizio pubblico. Non è neppure solo un insieme di diritti e di prerogative proprie di una società o dell’intero genere umano. E non è neanche da vedersi solamente sotto il profilo culturale, come l’insieme dei saperi e delle tecnologie sviluppate da un gruppo di individui affini per territorio o tradizioni.
Secondo il “Vocabolario dell’Etica” di Carlo Maria Martini, il bene comune può definirsi come “l’insieme delle condizioni di vita di una società che favoriscono il benessere, il progresso umano di tutti i cittadini”. Una definizione prettamente economica, e molto politica nelle sue implicazioni.
Da Adam Smith ad Amartya Sen
A metà del ‘700 Adam Smith, insegnante di filosofia e padre dell’economia politica classica, affermava che la ricerca del massimo profitto individuale avrebbe portato a una distribuzione equa della ricchezza fra le nazioni. Le evidenti disparità create da questo modello ultraliberale si sono rivelate in modo sempre più evidente lungo il secolo successivo, stimolando alcuni tentativi di risposta. Pensatori come Antonio Genovesi e Giacinto Dragonetti vanno ad esempio in direzione opposta all’homo homini lupus di Smith, parlando di reciprocità e di “pubblica felicità” come antidoti all’”oscurità” in cui la società stava entrando.
È da vedere in questo senso anche la nascita dei primi istituti di credito – perlopiù a ispirazione cattolica – creati proprio per tutelare i risparmi dei più deboli: prima applicazione di ciò che molti decenni dopo avrebbe preso il nome di “economia civile”, una concezione che trova nello spirito cooperativo il suo modello ispiratore.
Ma nel frattempo nascono nuove iniziative: intorno agli anni ’20 negli Stati Uniti viene creato il primo fondo comune “responsabile” basato su criteri di esclusione: niente investimenti in alcool, tabacco, gioco d’azzardo o pornografia. Da qui prendono il via altre forme di finanza socialmente responsabile che si staccano dai criteri prettamente utilitaristici. Su tutte i primi fondi pensionistici, nel Regno Unito.
Un impulso decisivo si ha poi grazie al premio Nobel Amartya Sen, che all’inizio degli anni ’90 teorizza il concetto di capability: al valore della ricchezza, dice l’economista indiano, va aggiunto quello della felicità, e una persona è davvero più ricca di un’altra solo se è anche più felice della propria qualità di vita.
Oggi, in Italia, la Scuola di Economia Civile porta avanti queste istanze, promuovendo l’analisi e la formazione su questi temi.
Il “bene” in finanza
Ma, in tutto ciò, cosa significa per la finanza perseguire il “bene comune”? Io credo voglia dire per prima cosa avere un ruolo attivo rispetto all’economia reale. Per secoli la finanza è stata vista come uno strumento “neutro” (la “mano invisibile” smithiana) quasi per definizione: investire significava seguire o anticipare i trend, non influenzarli. Oggi invece ci si sta rendendo conto sempre di più che anche la finanza può e deve avere un’anima, un corredo di valori, una sfera etica che come tale non può che riguardare la giustizia sociale, la reciprocità e il benessere di tutti. Un progresso che porta valore alla collettività nel suo insieme, al di là degli (e non necessariamente contro gli) interessi personali.