Imprenditori con un “Perché”
Avevo già parlato di loro su queste pagine. Con l’intenzione di farti conoscere meglio una realtà di eccellenza, ho avuto il piacere di avere mio ospite Livio Bertola al webinar che ho tenuto lo scorso 14 aprile, ed essere contemporaneamente ospite della loro azienda. Una realtà di eccellenza per l’elevata qualità delle lavorazioni (trattamenti galvanici) che permette di essere scelti da clienti di primissimo livello. Clienti che trovano nell’azienda un elemento in più: una profonda scelta valoriale che ha trasformato nel tempo il loro modo di lavorare.
Vediamo ora insieme alcuni temi che abbiamo affrontato con Livio Bertola
Buonasera Livio. Vuoi raccontarci qualcosa della Bertola srl: chi siete, la vostra storia?
Innanzitutto ti ringrazio di avermi invitato a questa serata molto interessante. Sono contento di potervi accogliere nella nostra azienda. Proprio in quest’anno in cui festeggiamo 75 anni di nascita di questa impresa. L’azienda è nata nell’immediato dopoguerra, a Marene. Esattamente il 12 febbraio 1946: c’era ancora la monarchia e la guerra era finita da poco . La storia della famiglia di mio padre è la storia di una famiglia poverissima. 8 figli, 3 maschi e 5 femmine, che in certi momenti dovevano chiedere l’elemosina per poter andare avanti. Dei tre fratelli, mio padre era stato arrestato e portato in un lager in Germania, da cui miracolosamente è riuscito a salvarsi. Un altro fratello, partigiano, è anche lui sopravvissuto alla guerra. Il fratello più vecchio, Michele, quando era ragazzino, invece di andare a fare il mezzadro, era andato a Torino in cerca di fortuna. Intorno al 1930 avevo aperto con un socio un’azienda galvanica, una cosiddetta “cromatura”. Questo lavoro, che poi è diventato il nostro, è un riporto di metallo di abbellimento su metalli ferrosi. Quando è scoppiata la guerra, nel 1940, aveva già oltre una cinquantina di dipendenti e aveva fatto una grande fortuna. Perché lavorava con aziende in forte espansione come la Fiat e la Lancia. Durante la guerra un bombardamento ha distrutto lo stabilimento. Mio zio è riuscito a recuperare qualche macchinario e l’ha portato a Marene, al paese natio, aprendo un piccolo laboratorio presidiato da uno dei suoi collaboratori. Finita la guerra, lo zio ha continuato l’attività a Torino e ha lasciato a mio padre e all’altro fratello l’azienda di Marene. In questo modo tanti operai, che si sarebbero spostati a Torino per lavorare, sono riusciti a fermarsi. E quindi si è creato subito un impatto positivo per il territorio.
Quindi la vostra azienda si occupa di cromatura…
Sì. L’azienda di mio zio si è specializzata in cromatura più tecnica, ossia riporto di alti spessori di cromo e di nichel su cilindri e pistoni. A Marene ci siamo affinati nella cromatura decorativa.
Siamo in un momento storico di crisi economica. Voi avete conosciuto altre crisi? E come ne siete usciti?
Potrei dire che siamo abituati alle crisi. Sembra quasi che, quando tutti andavano bene, noi andavamo male. E viceversa. Ad esempio, negli anni ’90 e 2000, quando c’è stato il boom del “consumismo-usa-e-getta”, noi andavamo male. Perché? Perché eravamo specializzati nella qualità. E la qualità non interessava, valeva il ragionamento “Se non va bene, lo butti via”. Noi però eravamo abituati ai lavorare con grandi marchi, che, con la crisi del 2008, hanno cominciato a puntare sulla vera qualità con la Q maiuscola. Abbiamo così ricominciato poco alla volta ad essere apprezzati.
Quindi potrei dire che ci siamo ripresi perché noi abbiamo tenuto sempre duro sulla qualità e abbiamo cominciato a essere apprezzati da grandi marchi. Da Technogym, leader mondiale del fitness, dalla BMW alla Brembo, per arrivare al Gruppo Piaggio e Moto Guzzi. E quindi ci ha premiato la qualità. Un altro segreto è che la liquidità è sempre stata prevalentemente reinvestita in azienda, anche per farla sopravvivere. E quindi è ben patrimonializzata.
Adesso ci lavora la terza generazione della vostra famiglia
L’esponente della seconda generazione sono solo io, terzo di quattro figli. Mentre i miei fratelli hanno scelto altre strade, io, se da un lato non avrei voluto fare questo lavoro, dall’altro, vedendo che c’era molto da fare dal punto di vista ambientale, economico, sociale, ho risposto quasi scherzando alle sollecitazioni di mio padre “ O faccio il missionario in Africa o lavoro qui” e negli anni ’70 mi sono buttato a fare la mia parte.
Potremmo dire che non hai scelto il lavoro. Hai scelto come fare il lavoro.
Esatto. Perché io mi sono reso conto che tante volte si pensa di fare una scelta, ma non è vero. Chiamiamola Provvidenza, chiamiamolo destino. Ognuno dia il nome che vuole. Tante volte si tratta di far tuo quello che ti capita: tu ti imbatti in una cosa e ti accorgi che non puoi dire di no.
Adesso stai passando il testimone ai tuoi figli
Io ho continuato il lavoro di mio padre per amore suo e anche perché non volevo chiudere un’azienda che era arrivata a dare lavoro, negli anni Sessanta, a oltre cento dipendenti. Quindi si può dire che fosse la prima azienda di un paese agricolo come Marene. Poi ho cercato di non farla morire nei momenti di crisi: abbiamo ridotto al minimo i collaboratori, abbiamo cercato di sopravvivere e poi pian pianino abbiamo continuato a investire il minimo necessario finché si è tirata su. Adesso è tornata sana e sono entrati 3 dei nostri 4 figli. Io allora avevo detto loro “Il nonno mi ha chiesto di fermarmi e io l’ho fatto per amore suo. Ma io non voglio obbligarvi, voglio lasciarvi liberi. Se fate altro va bene, magari cerchiamo chi rileva l’azienda, qualcosa ci inventeremo”. Sarà perché i figli a volte fanno l’opposto di quel che dice il padre per spirito di contraddizione, sarà che si sono sentiti liberi di scegliere, fatto sta che son rimasti a lavorare qui. Adesso sono loro, Paolo, Caterina e Marco che la portano avanti. Con grande entusiasmo e grande capacità. Bisogna puntare sui giovani, sono bravissimi loro e i loro collaboratori.
So che i grossi marchi vi riconoscono, oltre le capacità tecniche, la qualità nei rapporti e la qualità dell’ambiente che avete creato all’interno dell’azienda. Cosa ci dici al riguardo?
Provenendo da una famiglia molto povera, i nostri genitori ci hanno trasmesso l’umiltà. Quindi ci hanno anche insegnato a condividere e mettersi al piano degli altri. C’è sempre stato un rapporto quasi alla pari coi nostri genitori, zii, e ora noi con i nostri collaboratori. Sicuramente vige il rispetto dei ruoli: io sono il datore di lavoro, il responsabile. Come in una famiglia il padre ha un bel rapporto col figlio, col bambino piccolo, però ognuno ha il proprio ruolo. Quindi c’è sempre stato un clima sereno. Che ci ha permesso di superare i momenti di tensione, i momenti difficili, le incomprensioni, naturali come in tutte le famiglie.
Qual è il segreto nello sviluppare questo rapporto paritetico e nel mantenere l’equilibrio con tutti i collaboratori ?
Noi abbiamo cominciato ad aprirci verso chiunque abbia bisogno. E siamo partiti dal continente africano. Perché riteniamo che sia il continente che più ha sofferto e ancora soffre, anche per colpa dei paesi sviluppati che hanno sfruttato le risorse e le popolazioni, senza aiutarle a crescere. Quindi già 15-20 ani fa abbiamo dato precedenza ai lavoratori africani: abbiamo cominciato a assumere persone del Centrafrica, della zona del Sahel, e abbiamo subito chiarito che qui da noi esiste una razza sola, che si chiama razza umana. E più siamo diversi, più siamo contenti. Siamo convinti di questo e l’abbiamo sperimentato dando fiducia a queste persone arrivate da situazioni veramente difficili e dando loro dignità. Trattandoli come gli altri, anzi a volte meglio. Ad esempio, dal momento che vivono lontano, noi, oltre alle ferie, ogni tanto concediamo anche un paio di mesi per stare con le loro famiglie. Perché ci mettiamo nei loro panni e pensiamo cosa vorremmo noi se fossimo al loro posto. Abbiamo corso il rischio che ci accusassero di un razzismo al contrario, di privilegiare gli africani a scapito di italiani ed europei. Incomprensioni superate con la consapevolezza che si trattava di persone che provenivano da situazioni di disagio, per arrivare così ad un’integrazione e un arricchimento incredibili. Perché sperimentiamo l’unione di culture diverse, dell’Africa, dei paesi dell’Est europeo, del Sudamerica e di altre parti. Vediamo la bellezza dei momenti in cui ognuno porta la propria cultura e il proprio ingegno. Viviamo la reciprocità: se una persona si sente aiutata, se è buona d’animo e capisce cosa fa, cerca di restituire. E se anche la restituzione non è materiale, ma d’affetto, di collaborazione, il rapporto diventa paritario.
Questa organizzazione, questo rapporto con i dipendenti, ha portato una maggiore produttività?
Per risponderti introduco un concetto nuovo. I nostri genitori ci hanno fatto credere nella Provvidenza. Termine che può sembrare esclusivamente di matrice religiosa, ma che anche economisti come Luigino Bruni e Stefano Zamagni ci dicono essere anche un termine laico. In termini aziendalistici, noi lo consideriamo come il socio nascosto che ti aiuta anche quando non te l’aspetti. E arriva quando ognuno fa la propria parte . Quindi in questi anni abbiamo visto che, puntando molto su questi valori, quando tutto sembra crollare all’ultimo momento ti arriva un aiuto. E anche in questa pandemia abbiamo fatto questa esperienza veramente incredibile.
Dicevamo prima che non hai scelto un lavoro. Hai scelto come fare questo lavoro. Perché hai scelto di farlo in questa maniera?
In primo luogo per le nostre radici cristiane. Papa Francesco dice che quello che proponiamo noi non è un nuovo comunismo, è il Cristianesimo, che vuol dire sentirsi tutti fratelli sulla stessa barca. Quindi questo messaggio evangelico non è di sinistra o di destra, è un messaggio universale che è apprezzato anche da altre religioni.
Avendo collaboratori di culture e convinzioni diverse cerchiamo di applicare la regola d’oro, presente in tutte le religioni, che dice di fare agli altri quello che vorresti facessero a te. Questa regola d’oro me l’ha ricordata Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari, che ho avuto anche modo di incontrare personalmente. Lei proponeva il suo ideale che era quello di fare del mondo una fraternità.
Cosa vuol dire questo dal punto di vista imprenditoriale ed economico?
Come imprenditore vuol dire mantenere l’azienda, che, per imprenditori di seconda e terza generazione come noi, è il patrimonio che i nostri padri ci hanno lasciato. E non solo conservare, ma migliorare e cercare di creare posti di lavoro.
Tu sei il Presidente dell’AIPEC. Puoi dirci qualcosa in più?
Abbiamo parlato di Chiara Lubich. Questa donna ha avuto un’intuizione nel maggio del 1991. Facendo un viaggio in Brasile, sorvolando la città di San Paolo, ha visto dal finestrino dell’aereo grattacieli bellissimi, moderni, con le piscine sui balconi, e campi da tennis. Ed è rimasta colpita che queste abitazioni di lusso fossero divise solo con un muro dalle favelas, le baracche dei poveri. Era da poco caduto il Muro di Berlino e, crollato il comunismo, sembrava che il capitalismo potesse risolvere tutto. Lei ha pensato che la situazione che stava osservando fosse conseguenza delle distorsioni del capitalismo .
Allora ha proposto, ha lanciato l’Economia di Comunione. Si è rivolta alla comunità. Questo è un passaggio importantissimo perché ha proposto un cambiamento dal basso. Ha detto che, anche se poveri, si è tanti. E se ognuno nel proprio piccolo mette parte dei propri averi, il poco di tanti diventa un molto.
La proposta originaria dell’Economia di Comunione è di raccogliere questi capitali, costituiti dal poco di molti, e affidarli a bravi imprenditori che li facciano fruttare, sviluppando aziende che possano aggregarsi in poli produttivi. Aziende come le altre, con un’unica differenza: che mettono la persona al centro. Non il profitto ma la persona. Aziende che ovviamente pagano le tasse e cercano di rispettare l’ambiente interno ed esterno.
In che cosa consiste la comunione? Chiara Lubich ha invitato gli imprenditori e gli azionisti di queste aziende profit, che quindi devono fare utili, a destinare, nella libertà, i profitti in questa maniera. In parte reinvestendoli nell’azienda. Per migliorarla, rilanciarla e creare posti di lavoro. Non è così scontato perché, ad esempio, durante questa pandemia chi ha quattro soldi se li tiene sotto il materasso perché ha paura giustamente. Una seconda parte dei profitti serve a formare le persone in azienda, sia per quanto riguarda la formazione tecnica e professionale, sia per quanto riguarda questa “cultura del dare”, che si contrappone alla cultura dell’avere, dell’accaparramento a tutti i costi. Cultura del dare che bisogna diffondere non perché si è più buoni ma perché rende più felici. La terza parte viene destinata ad aiutare le persone e le comunità che sono in difficoltà economica.
L’AIPEC, di cui sono presidente, è l’Associazione Italiana Imprenditori per un’Economia di Comunione,. Cerchiamo di portare avanti questi principi e farli conoscere non solo alle aziende e ai professionisti ma anche alla comunità. Infatti può diventare socio anche una casalinga, uno studente, un pensionato, un dipendente. Quindi cerchiamo di creare e aiutare a vivere una cultura nuova.